Era il primo dicembre del 1970 quando l’Italia approvava la legge sul divorzio. La normativa era oggetto di discussione in Parlamento già dalla seconda metà dell’Ottocento, ma all’epoca i tempi non erano maturi per assegnare allo Stato quello che fino ad allora era stato il compito della Chiesa: decidere sulla fine o meno di un rapporto matrimoniale. Solo negli anni Settanta del Novecento, in piena affermazione dei diritti civili, la legge 898 riuscì a trovare la luce. A firmarla furono gli onorevoli Fortuna e Baslini, con il consenso di buona parte delle forze politiche, eccezione fatta per Democrazia Cristiana, Monarchici e Movimento Sociale che chiesero il Referendum Abrogativo. La votazione popolare avvenne appena quattro anni dopo e così la legge sul divorzio divenne realtà.
Una vera e propria conquista per gli italiani, l’affermazione di un potere decisionale in capo alla coppia, il riconoscimento, soprattutto, delle volontà delle donne, troppe volte sottomesse, sopraffatte, oggetto di violenza. La legge sul divorzio era la sintesi del riconoscimento di molti dei diritti femminili, si assegnava finalmente un valore all’essere donna, un valore troppe volte dimenticato in nome “della protezione di un uomo” che, nella maggior parte dei casi, si traduceva solo in possesso e sudditanza.
La legge sul divorzio ha reso la donna consapevole, consapevole del proprio io, del proprio valore, del suo ruolo nel mondo e da allora ogni conquista femminile è stata più facile. La legge sul divorzio ha aperto le porte a una visione nuova dei rapporti umani in cui al genere femminile veniva riconosciuto un potere decisionale. I divorzi sono aumentati costantemente negli anni, ci si attende, come si legge sull’Ansa, che nel 2030 l’incremento sarà del 78%, le cause vanno dall’incompatibilità caratteriale alla violenza domestica, un fenomeno del quale, nonostante sia trascorsi cinquant’anni dalla legge sul divorzio, ancora non siamo riusciti a liberarci.